LA TERRA: UN MOTORE TERMICO
Il gradiente geotermico dà la misura dell’aumento di temperatura con la profondità. Sino alle profondità raggiungibili con le moderne tecniche di perforazione, il gradiente geotermico medio è 2,5°-3°C/100 m. Di conseguenza, se la temperatura nei primi metri sotto la superficie, che corrisponde, con buona approssimazione, alla temperatura media annua dell’aria esterna, è 15°C, si può prevedere che la temperatura sia 65°-75°C a 2000 m di profondità, 90°-105°C a 3000 m e via di seguito per alcune migliaia di metri. Vi sono, comunque, vaste regioni nelle quali il valore del gradiente geotermico si discosta sensibilmente da quello medio. In aree in cui il basamento rigido sprofonda e si forma un bacino che si riempie rapidamente di sedimenti geologicamente “molto giovani”, il gradiente geotermico può essere anche inferiore a 1°C/100 m. Viceversa, in certe “aree geotermiche” il gradiente può raggiungere valori superiori a dieci volte quello normale.
La differenza di temperatura tra le zone profonde, più calde, e quelle superficiali, più fredde, dà origine ad un flusso di calore dall’interno verso l’esterno della Terra, tendente a stabilire condizioni di uniformità, condizioni che non saranno mai raggiunte. Il flusso di calore terrestre medio è 65 mWm-2 nelle aree continentali e 101 mWm-2 nelle aree oceaniche, con una media ponderale globale di 87 mWm-2(Pollack et al., 1993). Questi valori sono basati su 24.774 misure eseguite in 20.201 siti, che coprono circa il 62% della superficie terrestre. Il flusso di calore delle aree non coperte da misure è stato stimato tenendo conto della distribuzione delle unità geologiche.
L’aumento della temperatura con la profondità, i vulcani, i geysers, le fumarole, le sorgenti calde sono manifestazioni tangibili e visibili del calore interno della Terra, ma questo calore è all’origine di fenomeni meno percettibili dagli uomini, ma di tale grandezza, che la Terra è stata paragonata ad un enorme “motore termico”. Cercheremo di descrivere in modo semplice questi fenomeni, che rientrano nella teoria della tettonica a zolle, e di mostrare quali relazioni vi sono tra essi e le risorse geotermiche.
Il nostro pianeta è formato dalla crosta, che ha uno spessore di circa 20-65 km nelle aree continentali e 5-6 km in quelle oceaniche, dal mantello, spesso approssimativamente 2900 km, e dal nucleo, che ha un raggio di circa 3470 km (Figura 1). Le proprietà fisiche e chimiche di crosta, mantello e nucleo variano andando dalla superficie verso l’interno della Terra. L’involucro esterno del globo, che prende il nome di litosfera, è formato dalla crosta e dalla parte più esterna del mantello. La litosfera, che ha uno spessore che va da meno di 80 km nelle aree oceaniche a più di 200 km in quelle continentali, si comporta come un corpo rigido. Sotto la litosfera si trova l’astenosfera, formata dalla parte alta del mantello, che, rispetto alla prima, ha un comportamento “meno rigido” o “più plastico”. In altre parole, sulla scala geologica, ove i tempi si misurano in milioni di anni, in certi fenomeni l’astenosfera si comporta in modo simile a quello di un fluido viscoso.
Le differenze di temperatura tra le diverse parti dell’astenosfera hanno prodotto moti convettivi nei materiali che la costituiscono, e, qualche diecina di milioni di anni fa, potrebbero essersi innescate vere e proprie celle di convezione. Il loro lentissimo movimento (pochi centimetri l’anno) è sostenuto dal calore prodotto in continuazione dal decadimento degli isotopi radioattivi e da quello che proviene dalle parti profonde del pianeta. Enormi volumi di rocce profonde, allo stato fuso o semifuso, più calde, meno dense e più leggere dei materiali sovrastanti, risalgono verso la superficie, mentre le rocce più vicine alla superficie, più fredde, più dense e più pesanti, tendono a scendere per riscaldarsi e risalire di nuovo, con un meccanismo che assomiglia a quello che si instaura in una pentola quando si riscalda dell’acqua.
Nelle zone dove è più sottile, e soprattutto nelle aree oceaniche, la litosfera è spinta verso l’alto e fratturata dal materiale molto caldo e parzialmente fuso, che risale dall’astenosfera in corrispondenza dei rami ascendenti delle celle convettive. E’ questo meccanismo che ha formato, e tuttora forma, le dorsali, che si estendono per oltre 60.000 km sotto gli oceani, emergendo in alcune zone (Azzorre, Islanda) e talvolta insinuandosi tra i continenti come nel Mar Rosso. Una frazione relativamente piccola di rocce fuse, che risale dall’astenosfera, emerge dalla cresta delle dorsali e, a contatto con l’acqua marina, solidifica e forma nuova crosta oceanica. La maggior parte del materiale che risale dall’astenosfera, tuttavia, si divide in due rami, che scorrono in direzioni opposte sotto la litosfera. La continua formazione di nuova crosta e l’effetto di trascinamento dovuto ai due flussi, che scorrono in direzioni opposte, fanno in modo che i fondali oceanici, posti sui due lati delle dorsali, si allontanino l’uno dall’altro ad una velocità di pochi centimetri l’anno. Di conseguenza, la superficie dei fondali oceanici (la litosfera oceanica) tenderebbe ad aumentare. Le dorsali sono tagliate perpendicolarmente da enormi fratture, talvolta lunghe qualche centinaio di chilometri, chiamate faglie trasformi. Questi fenomeni portano ad una semplice osservazione: poiché non c’è evidenza di un aumento della superficie della Terra nel tempo, la formazione di nuova litosfera lungo le dorsali e l’espansione dei fondi oceanici devono necessariamente essere compensate da una riduzione (o assorbimento) della litosfera, di pari entità, in altre parti del pianeta. In effetti, questo è quello che avviene nelle zone di subduzione, le maggiori delle quali si trovano in corrispondenza delle grandi fosse oceaniche, come quelle che si estendono lungo il margine occidentale dell’Oceano Pacifico e lungo la costa occidentale dell’America Meridionale. Nelle zone di subduzione la litosfera si inflette verso il basso, si immerge sotto la litosfera adiacente e scende nelle zone profonde molto calde, dove è “digerita” dal mantello, e il ciclo ricomincia nuovamente. Durante la discesa, parte del materiale litosferico ritorna allo stato fuso e può risalire alla superficie attraverso fratture della crosta. Come risultato, parallelamente alle fosse, dal lato opposto a quello in cui si allungano le dorsali, si sono formati archi magmatici con molti vulcani. Laddove le fosse si trovano nell’oceano aperto, come nel Pacifico occidentale, gli archi magmatici sono formati da catene di isole vulcaniche; dove le fosse si trovano lungo i margini dei continenti, gli archi consistono di catene montuose con numerosi vulcani, come le Ande. La Figura 2 presenta graficamente i fenomeni descritti.
Figura 2:
Sezione schematica, che mostra il meccanismo delle tettonica a zolle.
Le dorsali, le faglie trasformi e le zone di subduzione formano un enorme reticolato, che divide la Terra in placche litosferiche o zolle, sei di grandi dimensioni e numerose altre più piccole (Figura 3). A causa delle grandi tensioni prodotte dai fenomeni descritti precedentemente, le zolle si muovono, scivolano lentamente l’una contro l’altra, collidono e cambiano continuamente la loro reciproca posizione. I margini delle zolle corrispondono a zone di fragilità e di forte fratturazione della crosta, caratterizzate da un’elevata sismicità, dalla presenza di molti vulcani e, a causa della risalita di materiali fusi molto caldi verso la superficie, da un flusso di calore terrestre elevato. Come si vede nella Figura 3, le più importanti aree geotermiche si trovano nei pressi dei margini delle zolle crostali.
Figura 3:
Zolle crostali, dorsali, fosse oceaniche, zone di subduzione e campi geotermici.
Le frecce indicano la direzione del movimento delle zolle. (1) Campi geotermici che producono elettricità;
(2) dorsali interrotte dalle faglie trasformi (fratture trasversali); (3) zone di subduzione, dove la litosfera volge in basso
verso l’astenosfera, dove fonde.
Sistemi geotermici possono formarsi in regioni con gradiente geotermico normale o poco più alto e, soprattutto, nelle regioni prossime ai margini delle zolle crostali, dove il valore del gradiente geotermico può essere anche notevolmente superiore a quello medio. Nel primo caso, questi sistemi hanno temperature basse, di solito non più di 100°C a profondità economicamente utili, mentre nel secondo caso, si può avere una vasta gamma di temperature, da basse sino ad oltre 400°C.
Un sistema geotermico può essere definito schematicamente come “un sistema fluido convettivo, che, in uno spazio confinato nella parte superiore della crosta terrestre, trasporta il calore da una sorgente termica al luogo, generalmente la superficie, dove il calore stesso è assorbito (disperso o utilizzato)” (Hochstein, 1990). Un sistema geotermico è formato da tre elementi: la sorgente di calore, il serbatoio ed il fluido, che è il mezzo che trasporta il calore. La sorgente di calore può essere una intrusione magmatica a temperatura molto alta (›600°C), che si è posizionata a profondità relativamente piccola (5-10 km), oppure, come in certi sistemi a bassa temperatura, il normale calore della Terra. Il serbatoio è un complesso di rocce calde permeabili nel quale i fluidi possono circolare assorbendo il calore. Il serbatoio generalmente è ricoperto da rocce impermeabili e connesso a zone di ricarica superficiali dalle quali le acque meteoriche possono sostituire, totalmente o parzialmente, i fluidi perduti attraverso vie naturali (per esempio sorgenti) o che sono estratti mediante pozzi. Il fluido geotermico, nella maggioranza dei casi, è acqua meteorica in fase liquida o vapore, in dipendenza dalla sua temperatura e pressione. Quest’acqua spesso trascina con se sostanze chimiche e gas, come CO2, H2S ed altri. La Figura 4 è la rappresentazione, schematica e molto semplificata, di un sistema geotermico.
Figura 4: Rappresentazione schematica di un sistema geotermico.
Le leggi che regolano la convezione dei fluidi sono alla base del meccanismo dei sistemi geotermici. La Figura 5 descrive schematicamente questo meccanismo, prendendo ad esempio un sistema idrotermale a media temperatura. La convezione si attiva in seguito al riscaldamento ed alla conseguente espansione termica del fluido in un campo gravitazionale; il calore alla base del sistema di circolazione è l’energia che alimenta e muove il sistema. Il fluido caldo e di minor densità tende a salire e ad essere sostituito dal fluido più freddo e di densità maggiore, proveniente dai margini del sistema. La convezione, per sua natura, tende a far aumentare la temperatura delle parti alte del sistema, mentre la temperatura delle parti inferiori diminuisce (White, 1973).
Figura 5
Modello di un sistema geotermico. La curva 1 è la curva di ebollizione dell’acqua;
la curva 2 mostra l’andamento della temperatura del fluido lungo il suo percorso dal punto di ingresso A a quello di uscita E.
Il fenomeno descritto può sembrare semplice; in realtà, la costruzione del modello di un sistema geotermico reale non è affatto facile. Essa coinvolge diverse discipline e richiede una vasta esperienza, soprattutto se si ha a che fare con sistemi ad alta temperatura. In natura, inoltre, si possono formare sistemi geotermici in varie combinazioni di situazioni geologiche, fisiche e chimiche, dando origine a tipi diversi di sistemi.
La sorgente di calore è l’unico dei tre elementi di un sistema geotermico che deve essere naturale. Gli altri due elementi, se esistono le condizioni adatte, possono essere “artificiali”. Per esempio, i fluidi geotermici estratti dal serbatoio per alimentare la turbina di una centrale elettrica, dopo averne sfruttato l’energia, possono essere immessi di nuovo nel serbatoio attraverso appositi pozzi di reiniezione. In questo modo la ricarica naturale del serbatoio è integrata dalla ricarica artificiale. Da diversi anni, inoltre, la reiniezione dei fluidi sfruttati è stata adottata per ridurre drasticamente l’impatto ambientale degli impianti geotermici. Nel Progetto Rocce Calde Secche(HDR Project), avviato negli Stati Uniti nei primi anni ’70, sia il fluido che il serbatoio sono artificiali. Attraverso un pozzo appositamente perforato, acqua ad alta pressione viene pompata in una formazione di roccia calda compatta, provocando la suafatturazione idraulica. L’acqua penetra e circola nelle fratture prodotte artificialmente ed estrae il calore dalle rocce all’intorno, che funzionano come un serbatoio naturale. Questo serbatoio viene poi raggiunto ed intersecato da un secondo pozzo usato per estrarne l’acqua, che ha acquistato calore. Questo sistema, quindi, consiste (i) del pozzo usato per la fratturazione idraulica, attraverso il quale acqua fredda è iniettata nel (ii) serbatoio artificiale, e (iii) del pozzo per l’estrazione dell’acqua calda. L’intero sistema, comprendente anche l’impianto di utilizzazione in superficie, forma un circuito chiuso, evitando ogni contatto tra il fluido e l’ambiente esterno. Questo interessante progetto, dopo qualche anno di esperimenti, è stato sospeso a causa del suo elevato costo e di alcune difficoltà tecniche non superate completamente.
In anni più recenti, una notevole attività di ricerca e sperimentazione è stata dedicata alla stimolazione del serbatoio, che utilizza alcune delle tecnologie del Progetto Rocce Calde Secche. La stimolazione del serbatoio può essere efficace nel caso, abbastanza frequente, in cui formazioni rocciose, contenenti fluidi caldi, abbiano una permeabilità troppo bassa, insufficiente a consentire la circolazione dei fluidi e a mantenere un sistema geotermico. Questa situazione può dipendere semplicemente dalla natura della formazione rocciosa, ma potrebbe anche essere l’effetto della occlusione parziale delle fratture preesistenti, all’interno o ai margini di un campo geotermico, a causa della deposizione di minerali durante lo sfruttamento. In condizioni favorevoli, la permeabilità delle rocce può essere migliorata o può essere ripristinata quella originaria con tecniche derivate dall’industria petrolifera, che prevedono l’iniezione di soluzioni acide nel sottosuolo. Gli esperimenti fatti sinora sembrano tuttavia indicare che il metodo più efficace di stimolazione sia la fratturazione idraulica.
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